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Freddo, neve, giacchio:

I "giorni della merla"


IL GHIACCIO
Si sente spesso dire che non si era mai avuta un’estate così calda, né un inverno così secco, né un luglio così piovoso, né un gennaio così freddo.
Ma a Roma le temperature sono state sempre piuttosto miti e i freddi mitigati dalla conformazione geologica e dall’umidità.
Si ricordano bene, quindi, le rare e affascinanti nevicate (come quella storica del 1956 alla quale Franco Califano dedicò una bellissima canzone), e nello stesso modo i freddi particolarmente intensi.

Nel gennaio 1694, ad esempio, si era verificato un freddo che non si ricordava da almeno trent’anni, con gran quantità di neve che rendeva impraticabili le strade ed era causa di malattie, disagi e povertà.
Ebbene in tale occasione, papa Innocenzo XII promulgò un editto che vietava, sotto pena di galera (!), di giocare a… palle di neve, per evitare ulteriori guai da raffreddamento!

Nel 1891 il Cracas riferisce: “Una bella nevicata da cinque giorni imbianca tetti e vie; il freddo è crudissimo.
Confortiamoci col nostro antico proverbio: Per sant’Agnese, la lucertola va per la maese”.
Ciò significava che se il 21 gennaio era soleggiato, ci si riprometteva una primavera calda.

La neve, divertimento dei bambini, dannazione degli agricoltori, disgrazia per i poveri, era ricercata invece dai ricchi per immagazzinarla allo scopo di conservare gli alimenti e adoperarla d’estate per rinfrescare le bevande.
La fornitura del ghiaccio per Roma proveniva dai territori lincei, dai Monti Lucretili, i più alti del circondario, tra la Sabina romana e quella reatina.
Monte Zappi, Monte Pellecchia, Monte Guardia, ad un’altezza maggiore di 1200 metri, costituivano il complesso di Monte Gennaro, così chiamato dal freddo che lo contraddistingueva, e la zona più interna, quella di Monte Flavio, rappresentava fin dai tempi dell’Impero la “riserva di ghiaccio” dell’Urbe: dalla copiosa e purissima neve, compattata e tagliata, venivano tratti blocchi di ghiaccio che, opportunamente isolati da strati di paglia, e ricoperti addirittura di letame, si trasportavano a Roma coi carri.

Una quarantina di chilometri di viaggio: dai “pozzi della neve” di Monteflavio la strada montana fino a Moricone, poi la collinosa “strada della neve” che portava alla Salaria e quindi in città.
Qui si conservavano in luoghi appositi, chiamati fin dall’antichità le “riserve della neve” o “neviere”.
Una di queste non poteva mancare nella villa “gioiello” tra le romane, Villa Borghese: tra voliere, aranciere, serre, giardini segreti, c’era anche un cosiddetto “pozzo della neve”.

La servitù la utilizzava per servire bevande ghiacciate agli ospiti che passeggiavano per i vialetti ombrosi sotto la calura estiva.
Chi non poteva permettersi la villa con la “riserva” ma aveva comunque buoni mezzi economici, teneva in casa, in cucina o più spesso in cantina, la “ghiacciaia”, quel mobile di legno con intercapedine rivestito internamente di lamiera zincata, dove si inserivano i pezzi di ghiaccio utili a tenere in fresco il burro, il latte, la carne e il vino bianco.
Le ghiacciaie funzionavano ancora fino agli anni ‘50 del Novecento, utilizzando le colonne di ghiaccio prodotto col sistema industriale a basso costo, generalmente dalle fabbriche di birra.
Poi arrivò l’esplosione economica e con essa l’uso indispensabile del frigorifero.

LA MERLA
La tradizione popolare sostiene che gli ultimi tre giorni di gennaio siano i più freddi di tutto l’anno.
Se ciò si verifica, la primavera sarà mite e fruttuosa; se invece tali giorni saranno caldi, la buona stagione tarderà.
Sono chiamati “i giorni della Merla” e vi sono al riguardo svariate leggende.

Pare che i merli, originariamente, fossero bianchi.
Il merlo che, proprio nei giorni in questione, si posò infreddolito su un camino, rimase annerito dalla fuliggine dando inizio ad una “variazione genetica” che dura da sempre.
Varie trasposizioni della leggenda spiegano anche perché in quei giorni si sente in modo particolare il vento, che sembra emettere un lugubre pianto.

Si dice che una coppia di merli (bianchi) si posò su un camino: il maschio si allontanò poi per cercare cibo e ritrovò la compagna tutta nera; non la riconobbe e se ne andò facendola morire di fame, mentre lei disperata lo chiamava piangendo.

Un’altra versione narra che una merla lasciò i suoi piccoli sul famoso (e fumoso) comignolo, al calduccio, e si allontanò per cercare nutrimento: tornando li trovò neri, non li riconobbe e li lasciò morire tra i lamenti.

Secondo un’altra ancora, la merla lasciò i piccoli al nido, si allontanò e sorpresa da una tormenta si rifugiò in un camino; tornata al nido i piccoli, non riconoscendola dal colore, la cacciarono via e morirono tutti, loro di fame e lei gemendo dal dolore.

L’ultima più tragica racconta di due giovani, soprannominati Merlo e Merla, che vivevano sulle rive opposte del fiume.
Si sposarono alla fine di gennaio al paese di lei, poi si accinsero a tornare a casa sull’altra sponda.
Sorpresi dalla tormenta, cercarono riparo invano finché lui tentò di attraversare il fiume a nuoto per cercare una barca con la quale riprendere la sua sposa.
Intirizzito dal freddo, morì nel tentativo, mentre Merla ne aspettava il ritorno invano, piangendo sconsolata tra gli alberi (e ancora oggi si sente il suo lamento).


Sandro Bari, Direttore Rivista "Voce romana" © Riproduzione riservata
Dossier condominio 205/2025


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