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Storia di un piccolo monumento a Piazza Fiume
I c.d. social ci danno la misura di quanto l'informazione sia appannaggio di inesperti e inconsapevoli, e quanto riescano a pubblicare notizie obsolete spacciandole per attualità.
Ne troviamo un esempio nella notizia (maggio 2023) che i Carabinieri hanno scoperto un insediamento clandestino lungo le mura Aureliane, a piazza Fiume, all'interno di un monumento recintato da inferriate, che hanno identificato i sei nordafricani occupanti e che hanno disposto la bonifica del luogo e verificato la chiusura.
Eppure, era noto e visibile a tutti i passanti e agli automobilisti, da anni e anni, che in quel luogo si dormiva e si bivaccava con tanto di pentole e fornelli, incuranti del traffico adiacente, e che qualcuno vi aveva libero accesso nonostante le inferriate apparentemente chiuse da un lucchetto.
Ma tant'è: la notizia, anche se non servirà ad evitare la prossima occupazione, se non altro ha ridato memoria al monumento ai piedi del quale si era installato l'ultimo gruppo di ospiti. Ne faremo una breve storia.
Da quella porta anticamente chiamata Collina, oggi fagocitata dal Ministero delle Finanze, usciva la via Salaria, che insieme all'Appia era la più ricca di tombe prospicienti la strada.
La Porta Collina faceva parte delle mura repubblicane ed era situata nei pressi dell'incrocio tra via XX Settembre e via Goito, e fu ritrovata durante i lavori per la costruzione del fabbricato che, pur se ha cambiato denominazione tutti conosciamo (...purtroppo!) come Ministero delle Finanze.
Fu sostituita dalla Porta Salaria lungo le mura imperiali, a poca distanza lungo via Piave, con le sue due torri laterali; danneggiata dall'artiglieria dell'esercito piemontese nel settembre 1870, fu ricostruita e modificata dal Vespignani nel 1873, poi definitivamente eliminata nel 1921 per questioni di traffico: fermate del tram ecc.
Le due torri erano state edificate sopra monumenti sepolcrali che vennero alla luce durante i lavori del 1873.
Nella occidentale si trovano i resti di un sepolcro circolare dedicato a Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Scipione Asiatico, ora spostati lungo le attuali mura in corso d'Italia e recintati, di fronte a via Tevere.
Nella orientale, a destra uscendo da via Piave, si sono trovati due sepolcri, visibili oggi all'interno delle mura: uno a dado dell'età di Silla, in blocchi di tufo, l'altro su una base in travertino reggente un cippo marmoreo con al centro la statua di un giovane in toga che ha in mano un volumen: si tratta di Quinto Sulpicio Massimo, morto a 11 anni, figlio di Quinto Sulpicio Eugamus e Licinia Ianuaria.
Una iscrizione latina e due epigrammi in greco spiegano che il ragazzo aveva vinto il concorso di poesia nel terzo agone capitolino del 94 d.C. tra 52 concorrenti, una gara mondiale quinquennale di esibizioni ginniche ed equestri, di musica e poesia, suscitando la meraviglia e l'ammirazione dei giudici.
Si tratta di una copia, l'originale è nella centrale Montemartini dei Musei Capitolini, ed è importante perché questo monumento funebre ha una sua particolarità: riporta la più lunga iscrizione che ci sia pervenuta in un sepolcro, raccontando la triste storia di chi vi è sepolto.
Il ragazzo ea morto prematuramente, ammalatosi per il troppo studio e l'eccessivo amore per le Muse.
Era un verna, schiavo nato in casa da schiavi, e i genitori vi riponevano grandi speranze per la sua propensione allo studio e alle lettere.
Il padre, originario della regione euganea, conquistata due secoli prima dai romani, aveva assunto il prenome del nobile padrone, la madre faceva la portinaia.
Il giovane era talmente stimato dal padrone che questi gli aveva dato il suo nome disponendo di affrancarlo dopo la sua morte: ciò gli avrebbe permesso di partecipare al Certamen. Nello stesso modo gli era stato consentito di indossare un indumento vietato ai servi, la toga, addirittura nella forma virile, che poteva essere indossata non prima di 15 anni.
Alto 1 metro e 61 centimetri, il cippo è in marmo pentelico, coronato da un piccolo frontone con acroteri angolari; al centro, dentro una nicchia semicircolare, è l'altorilievo del giovinetto recante nella mano sinistra un volumen in parte svolto: il suo componimento.
Sotto la dedica classica DEIS MANIBUS SACRUM (sacro alle divinità dell'oltretomba) sono visibili l'iscrizione dedicatoria in latino dei genitori e il testo in greco del poemetto: 40 versi con quali aveva ottenuto il premio dell'agone, che veniva consegnato dall'imperatore Domiziano.
La composizione poetica attiene ai rimproveri di Giove ad Apollo, colpevole dei disastri cosmici provocati dal figlio Fetonte, che per dimostrare la sua discendenza divina aveva convinto il padre a lasciargli guidare il carro del Sole.
Inesperto, aveva perso il controllo della guida e i cavalli imbizzarriti avevano corso troppo alti nel cielo bruciandone un tratto, divenuto la Via Lattea, quindi troppo bassi sulla terra, facendo della Libia un deserto.
Ciò aveva scatenato l'ira di Giove, che aveva scagliato un fulmine contro Fetonte, facendolo precipitare alle foci del Po, dove oggi sono le terme euganee.
Riportiamo la bella traduzione trovata sul web (senza autore) della dedica dei genitori e dell'immaginaria risposta del figlio: «Dilettissimo figlio, con i risparmi accumulati per comprarci un giorno la nostra libertà ti abbiamo eretto un monumento che avremmo desiderato fossi tu, invece, a offrire a noi.
Qui ormai, insieme alle tue ceneri, giacciono le nostre speranze.
Infelicissimi, ti abbiamo voluto in immagine con quella toga che avresti vestito un giorno, fra gli onori e l'ammirazione dovuti al tuo genio.
Possa tu almeno rallegrare, con i doni a te concessi delle Muse, le anime beate, là dove desideriamo anche noi affrettarci a raggiungerti».
«Padre e madre da me tanto amati, avevo cantato Fetonte perché, giovinetto anch'egli, come me ambiva a mete eccelse.
Volevo anche onorare te, padre, ricordando il tuo luogo di nascita, quella terra euganea dove l'irritato Zeus mandò a capofitto col suo fulmine l'incauto auriga.
Ma frenate le lacrime, se mi avete caro: dove ora mi trovo m'è stata riservata una splendida sorte, inimmaginabile ai mortali...»