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Si combatte a Villa Glori

Abbiamo visto dunque la nascita della Repubblica Romana, che affronta con onore i Francesi, inviati a restaurare l'autorità pontificia.


Il complesso di forze armate della Repubblica ammonta virtualmente a circa 18mila uomini, al comando del Gen. di Divisione Roselli; Garibaldi, col grado di Gen. di Brigata, si incarica della difesa dell’Urbe con circa ottomila combattenti (che non brillano per organizzazione e per disciplina).
Cinquemila Francesi comandati dal Gen. Oudinot vengono inviati all’assalto delle Mura; dopo l’insuccesso iniziale per l’inattesa reazione dei difensori vengono rinforzati fino a 30mila.

La potenza di fuoco e di forze degli assalitori ha infine successo sull’eroismo dei difensori, trascinati dal carisma di Garibaldi, sempre sottostimato però da politici e militari per la sua nomea di guerrigliero o addirittura di filibustiere, comunque ingovernabile.

Il 3 luglio 1849 l’Assemblea della Repubblica delibera la cessazione delle ostilità.
Mentre le truppe francesi stanno per entrare a Roma, Garibaldi e 4700 suoi seguaci radunatisi a piazza san Pietro escono da porta S. Giovanni e iniziano una marcia epica attraverso l’Italia, dalla quale si salveranno in pochissimi.
Garibaldi non demorde e nel 1866, al comando del suo Corpo di Volontari, ottiene l’unica vittoria italiana nella III Guerra d’Indipendenza, ritirandosi solo quando dallo Stato Maggiore ne riceve l’ordine scritto, al quale risponde “obbedisco”.
Ma dà inizio, subito dopo, alla “Campagna dell’Agro Romano per la liberazione di Roma” con i suoi volontari in Sabina.
Nel frattempo nell’Urbe si preparano ulteriori movimenti insurrezionali, irrealizzati perché senza alcun sostegno dei cittadini: dimostrazione tragica ne è l’episodio dei fratelli Cairoli e dei Settanta di Villa Glori, che esporremo al netto delle enfatizzazioni attenendoci alla documentazione in merito.

La spedizione fa parte delle iniziative mazziniane volte a suscitare una rivolta popolare a Roma contro l’autorità papale. 22 ottobre 1867: Enrico e Giovanni Cairoli, alla guida di altri volontari garibaldini (chi dice siano in tutto 67, chi 78), sequestrano due imbarcazioni all’altezza di Passo Corese sul Tevere, per entrare nascostamente a Roma.
Sperano di trovare ad aspettarli gruppi di insorti armati, cosa che non avverrà perché le armi promesse non sono mai arrivate e la polizia pontificia ha già arrestato sul nascere il movimento insurrezionale. Sbarcano in località Sassi di San Giuliano, una piccola edicola all’altezza dell’Acqua Acetosa, dove si trova la catena di sbarramento sul Fiume.
Inerpicatisi per la collina boscosa, i volontari si rifugiano nei due casali della famiglia Glori, proprietaria della Villa.
La loro presenza viene notata da contadini locali e denunciata alle autorità.

Il Generale Ermanno Kanzler, comandante delle Forze armate pontificie, descrive stringatamente i fatti nel suo rapporto ufficiale: «Il 23 ottobre, avendo saputo che sui Monti Parioli si aggirava qualcuno vestito di rosso, il Gen Zappi, com.te la II Brigata, inviava sul luogo una pattuglia di 42 Carabinieri comandata dal Capitano Giulio de Meyer, la quale si imbatteva in un gruppo di circa 60 garibaldini con i quali si accendeva una fiera mischia, essendosi, dopo i primi colpi di fuoco, combattuto corpo a corpo.
Parecchi volontari venivano uccisi, tra i quali Enrico Cairoli, altri 7 feriti e ricoverati nell’ospedale Santo Spirito. Il Cap. Meyer restava gravemente ferito. Il giorno dopo nella Villa una colonna di gendarmi arrestava i restanti fuggiaschi.

Il Capitano Meyer descrive invece minuziosamente lo svolgersi della scaramuccia tra i Carabinieri pontifici e i garibaldini, nonché l’aspra lotta tra lui e il Comandante dei volontari, Enrico Cairoli.

«…Nel frattempo il nemico si era avvicinato fino alla distanza di quindici passi. Eravamo separati da una stradina infossata. Mentre facevo fuoco due volte col mio revolver, ricevetti tre pallottole di uguale arma nel mio braccio destro. Contemporaneamente dei garibardini, mandando urla selvagge, sorpassarono la stradina bassa e ci attaccarono all’arma bianca. Cercai di scaricare contro di loro le quattro pallottole del mio revolver ma questo mi mancò. Il mio braccio, evidentemente per la perdita di sangue, non mi consentiva più di premere il grilletto. Abbandonai allora la rivoltella per prendere la carabina di un trombettiere ferito, caduto ai miei piedi. Il più avanzante degli assediati, uomo di alta statura e complessione robusta, si lanciò su di me con un fucile. Gli uomini della mia sinistra, formanti catena, a tre passi l’uno dall’altro, erano impegnati con l’avversario e non potevano corrermi dietro. L’oscurità penetrante e la cura della mia difesa personale non mi consentivano di giudicare i loro movimenti, ma ero sicuro della loro condotta attraverso il crepitio di ferri e il rumore sordo dei calci dei fucili che io sentivo dietro la mia persona. L’avversario col quale io avevo lo scontro non era altri che il capo della banda: Enrico Cairoli.

Mi inferse violenti colpi di baionetta che il mio braccio ferito non mi permise di parare che imperfettamente. In brevi momenti ne ricevetti due colpi alla spalla destra, uno alla coscia, un altro alla parte sinistra ed un quinto alla ragione addominale.
Appena potei parare il sesto colpo, le mie mani senza forza lasciarono cadere il fucile. Afferrai allora la baionetta del mio nemico che fortunatamente rimase subito nelle mie mani.

Mentre egli brandiva la sua arma sulla mia testa io mi gettai su di lui e lo chiusi fra le mie braccia. Stavo per perdere coscienza quando il mio sergente maggiore Hofsterter, un Bavarese, sopravvenne insieme con la mia riserva. Visto il pericolo in cui mi trovavo, si lanciò sul Cairoli e fece fuoco. Cairoli mi lasciò per tenere testa al suo nuovo avversario e mi sentii piegare le ginocchia, ma vidi il mio aggressore cadere a terra esamine. … Bene o male cercai di camminare ma fui subito attaccato da due garibaldini, uno dei quali mi stringeva il collo con due mani. Rotolammo insieme e stavo per essere strangolato da questo nuovo aggressore quando il mio soccorritore, sempre il sergente maggiore, gli fece lasciare la presa con un colpo di calcio sulla testa. Intanto le camicie rosse si erano disperse in varie direzioni. I miei soldati mi sollevarono da terra ed io ripresi conoscenza giusto in tempo per vedere gli ultimi fuggitivi. Mentre un buon numero di nemici giacevano stesi al suolo senza più muoversi, da parte nostra, eccetto me, non avevamo che tre feriti, tra i quali due trombettieri, uno dei quali morì in seguito alle ferite. … Mi fu impossibile camminare e due uomini dovettero portarmi, più che condurmi. …Alle sette circa ci ritrovammo a Porta del Popolo, dove fui disteso su un carro imbottito di paglia… Per alcune settimane rimasi sospeso tra la vita e la morte. Un giorno, uno dei miei bravi soldati mi portò un revolver, sul quale erano incise le iniziali E.C. - Enrico Cairoli. Egli aveva raccolta quell’arma sul luogo del combattimento il giorno dopo, ed ebbe il delicato pensiero di farmene un presente, come ricordo della sanguinosa giornata.» Il Capitano Giulio de Meyer fu ricoverato in gravissime condizioni, per otto ferite, all’Ospedale di Santo Spirito, dove fu amorevolmente curato anche Giovanni Cairoli. Quest’ultimo fu liberato due mesi dopo, eletto Consigliere comunale a Pavia e sopravvisse due anni; il de Meyer fu promosso Maggiore, pluridecorato e dopo la presa di Roma comandò un reparto di guardie in Svizzera, dove morì nel 1907.


Sandro Bari, Direttore Rivista "Voce romana" © Riproduzione riservata
Dossier condominio 177/2020


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